«”Questi giovani”… Di analisi storiche se ne possono fare, se ne possono aggiungere altre sociologiche. Ma non hanno chiesto loro di venire al mondo in quest’epoca, in quest’epoca in cui c’è la risorgenza del nazismo, del fascismo, di tutte le dittature che sembravano già ormai condannate dalla storia stessa. Non hanno chiesto loro! Sono entrati in un mondo che abbiamo noi lasciato, una generazione che dal ‘45 ha potuto vivere questo affievolimento… diciamo pure la parola proibita: degli ideali, delle utopie per un mondo unificato, per un mondo fraterno, solidale, mondo dove i poveri avrebbero avuto la possibilità, la dignità di essere considerati uomini alla stessa stregua di tutti. Abbiamo vissuto, lentamente, con lo scorrere del tempo, questo ritorno dello sfruttamento dell’uomo al servizio dell’uomo. E siamo arrivati ad una condizione in cui i giovani… cosa hanno trovato? Hanno trovato quello che le generazioni precedenti hanno lasciato.
Quindi non è che consideri il problema dei giovani come qualcosa a se stante. I giovani si inseriscono in una tradizione. Quello che si lascia, loro raccolgono. E naturalmente se c’è una divisione di dentro – come in ogni uomo c’è questa divisione – possono raccogliere una parte e lasciare un’altra.
Insomma, è che bisogna lasciare questi valori con credibilità. In modo che chi prende, dica: per lo meno ci credeva chi mi ha lasciato questo. E la credibilità è nel fare. Non è nel parlare. Nel fare, fare sì che la Parola diventi carne. La preoccupazione per i giovani credo che sia normale per le persone anziane. Ma guai se dovesse diventare l’assillo dell’anziano perché i giovani diventino come lui. I giovani devono fare la loro corsa, prendendo il testimone delle generazioni che hanno vissuto questo. È inutile dunque che chieda ai giovani qualcosa che io non posso dare o non do o non voglio dare. Si danno modelli di comportamento, scelgono loro. Insomma, è un fatto di credibilità di quello che si lascia.»
(da un’intervista con Luisito Bianchi in occasione del 25 aprile 2005)